Ecco, l’ho fatto anche l’altra sera. Ho guardato i servizi di Rai 3, Report Bio illogico e, prima della Gabanelli, “Indovina chi viene a cena?” la nuova trasmissione di Sabrina Giannini. E mi sono arrabbiata, eccome, se mi sono arrabbiata!
La denuncia sullo sfruttamento delle vacche da latte è orripilante. Se non avete visto la puntata potete recuperarla attraverso questo link di Facebook oppure attraverso il blog Vegolosi.
Le manipolazioni cui sono oggetto le vacche da latte in primis e parallelamente noi consumatori, sono inqualificabili e imbarazzanti, nel senso che suscitano un sentimento di imbarazzo, di vergogna, da un lato per ciò che alcuni sono disposti a fare per denaro, dall’altro per ciò che si ignora, che ci rende alla fine complici.
Inutile dire che, come la legge non ammette ignoranza, così ai nostri giorni non è più possibile fingere di non sapere o schermirsi dietro un insostenibile “non pensavo”, o peggio “non ci credo sono tutti complottisti, si fa disinformazione”. Si può credere alle notizie pubblicate da un certo tipo di giornalismo oppure no, ma non è ammissibile non informarsi e non farsi una propria opinione.
E siccome questo è il mio blog, vi dico cosa ne penso io.
Sono stata una consumatrice timida di latte, da sempre, ma al compimento del 12 mese di mia figlia sono passata al latte vaccino; il secondogenito maschio invece ha bevuto litri di latte fino ai 3 anni, poi non ne ha più voluto sapere. Abbiamo consumato molto formaggio fino a qualche anno fa e settimanalmente andavo in una cascina della zona a comprare il latte sfuso. Le vacche le vedevo dentro le stalle, ma non mi sembravano così “sacrificate”, forse un po’ strettine, ma non sofferenti.
Poi un giorno leggendo un articolo, mi rendo conto di ciò che era lì alla portata della mia coscienza ma che fino a quel momento non avevo ancora voluto analizzare: ma come fa una vacca a produrre continuamente latte? E’ un mammifero e il latte serve ad alimentare il suo piccolo, perciò una volta che il piccolo è cresciuto…
Non ci siete arrivati ancora?
Anzitutto il vitello viene sottratto alla madre subito ed alimentato con latte generico, se va bene, altrimenti con latte artificiale addizionato per farlo crescere velocemente, poi la vacca viene di nuovo resa gravida, in modo da non cessare mai la produzione di latte, e stimolata a fare sempre più latte con medicinali. Così finché è in grado di farlo, dopodiché ha terminato il suo ciclo vitale e diviene carne da banco.
Il resto è tutto, o quasi, lì in quel servizio.
Poi c’è il biologico, un mondo sano, fatto di competenze e dedizione, di convinzioni e fatica, nel quale una maggiorazione di prezzo è lecita poiché maggiore è la dedizione e l’energia impiegata, a fronte di una resa limitata e precaria, se messa a confronto con le colture/allevamenti tradizionali.
Troppo appetitoso il business che ci gira intorno, troppo facile truffare — sembra — e troppo bello perché potesse restare così, intonso, vagamente idilliaco. Così eccoci ad una nuova definizione, il bio-illogico, come l’hanno chiamato i giornalisti di Report.
Ma non è forse vero che in tutto il mondo, in ogni campo, esiste chi commette illeciti? Sì, ma non consola. Non scaccia quel sapore amaro, che ti sale quando pensi che ti sei fidato del marchio di certificazione pensando di fare bene al tuo mondo e a chi lo erediterà.
Se non ci fosse questo tipo di giornalismo, saremmo tutti in balía della grande distribuzione e dei grandi gruppi di acquisto, delle leggi implacabili di mercato, delle leggi che richiedono uno sfruttamento esaustivo delle risorse.
Penso che alla fine esiste invece una realtà minore, fatta di piccoli coltivatori ed allevatori, che non hanno velleità di diventare miliardari, che non hanno mire espansionistiche, che non sono soggetti a dinamiche viziose di commercio, che credono davvero in quello che fanno, forse anche un po’ idealisti, ma che sono riusciti ad instaurare con il consumatore un percorso privilegiato di rispetto e fiducia. Sono i piccoli produttori dai quali i G.A.S. Gruppi di Acquisto Solidali (qui il link), si servono abitualmente, che vai a trovare e vai a vedere cosa fanno, che ascolti quando ti raccontano che una pioggia inaspettata gli ha mandato a quel paese il raccolto delle fragole, che ti chiamano per chiederti se il G.A.S. consuma i carciofi, perché li vorrebbero piantare ma non sanno se poi li gradiremo, che il latte delle loro vacche lo assume il vitello e quel che resta lo vende al formaggiaio della zona. Insomma un canale privilegiato di produzione e consumo che non dico sia immune alla frode, questo no, ma che mette la fiducia alla base del rapporto.
Vai a trovarli non per controllare, — non è il tuo mestiere, non sapresti farlo — ma per vedere da dove viene il prodotto che acquisti e di conseguenza capire chi è la persona che ci sta dietro e qual è il suo vissuto quotidiano. Niente di tutto questo ti mette al riparo dalla truffa, ma pensi che se potrò guardarti in faccia e stabilire con te una relazione di scambio, sarà più difficile trattarmi come il consumatore davanti allo scaffale della pasta nel supermercato.
Non è il biologico ad essere illogico, tutt’altro, mai come in questo momento storico fare e consumare biologico è la strada più sensata da perseguire. L’illogicità, piuttosto, risiede nel trasferire ed estendere il concetto di truffa ad un mondo più vasto, che vive anche di realtà oneste, che in modo coerente perseguono i criteri del biologico.
La pochezza umana di coloro che, piccoli o grandi, tanti o pochi, vivono come parassiti su tutto quanto può essere manovrabile per scopi privati di lucro, dopo averci stupito e scandalizzato o amareggiato, deve lasciarci soltanto il desiderio di informarci di più e di allenare quotidianamente quel senso critico di cui ho a lungo parlato in un mio post, che incomincia proprio dallo scaffale e dalla lettura dell’etichetta.
L’ignoranza non è più ammessa.